Le multinazionali del tabacco contro i piccoli produttori di sigarette

Tabacco 1Uno scontro voluto dalle multinazionali per impedire ai piccoli produttori di vendere le sigarette a prezzi più bassi. Ma l’Europa ha multato tutti noi.
La guerra dei prezzi, fatta prima di costi minimi delle sigarette e ora di strumenti fiscali, si sta rivelando un boomerang per i giganti del tabacco, che puntavano a tenere fuori dal mercato i piccoli produttori. La cancellazione del prezzo minimo da parte della Corte di giustizia europea nel marzo 2010 ha aperto la strada ad un gioco al ribasso delle bionde, allargando di molto le forbici rispetto alle marche di prezzo alto. Questo ha permesso ai piccoli di farsi strada nel mercato italiano ed estero, disturbando non poco gli affari di Big Tobacco.
Dopo il prezzo minimo – che all’Italia è costata una multa da parte di Bruxelles -, i padroni delle bionde hanno aggirato le indicazioni dell’Europa con la “tassa minima”, altro provvedimento illegittimo, cancellato dal Tar nell’aprile 2012. Una trovata dopo l’altra, favorita dal Parlamento italiano che fa il gioco delle multinazionali. Ma negli ultimi tempi la musica sembra cambiare e i big stanno rincorrendo i piccoli – la torinese Yesmoke in testa, responsabile del ricorso in Europa e al Tar -, abbassando i prezzi di alcune marche.
Vediamo come le multinazionali riescono a garantirsi profitti enormi con prezzi alti e tasse basse. Il meccanismo è contorto, ma efficace: chi vende le sigarette ad un costo elevato viene premiato con un forte sconto sulla componente proporzionale della tassa, detta accisa minima.
Mentre in altri paesi europei l’accisa è salita oltre il 65 per cento, in Italia è ferma da oltre dieci anni al 58,5 per cento. Con questo sistema chiunque voglia vendere a basso prezzo, vede invece impennare le tasse.
Così facendo le casse dell’erario si svuotano e quelle dei big si riempiono. Il Parlamento pressato dalla lobby delle multinazionali non interviene e nel solo 2013 lo Stato ha perso oltre 750 milioni di euro. Secondo una recente stima, ogni punto percentuale relativo all’aliquota dell’accisa minima vale circa 200 milioni di euro. Per cui «se si aumenta la componente variabile di 7 punti percentuali, portandola ai livelli della Francia (65,5 per cento) – avverte la torinese Yesmoke -, allo Stato andrebbero 1 miliardo e 400 milioni di euro in più di tasse».
Vista dal lato economico sarebbe un bel traguardo per il governo, che annaspa per racimolare quattrini. Le multinazionali, che finora hanno agito in regime di monopolio, vedrebbero comprimersi i loro profitti e ai contribuenti, fumatori e no, verrebbero restituiti parte dei loro soldi. Un’azione equa, che viene però ignorata dai nostri politici, impegnati a ricevere i rappresentanti dei giganti delle sigarette – Philip Morris, British American Tobacco e Japan Tobacco Interational – che coprono oltre il 98 per cento del nostro mercato.
Tutti gli altri aspettano fuori dalla porta, mentre i grandi giocano. Tra i piccoli però ci sono imprenditori italiani che ancora investono nel nostro Paese, come la Yesmoke di Settimo Torinese, che impiega oltre 100 lavoratori. Possibile, quindi, che la Commissione finanze della Camera – presieduta dal radicale e berlusconiano Daniele Capezzone – non abbia un altro posto a quel tavolo? Nel corso di novembre del 2013 la Commissione si è riunita più volte, ascoltando i rappresentanti delle multinazionali, che chiedono di non alzare le tasse.
A dare ragione a Big Tobacco ci sono anche le relazioni economiche di importanti centri di ricerca universitaria, come il prestigioso Centro Arcelli per gli studi monetari e finanziari (Casmef) dell’Università privata Luiss Guido Carli. I ricercatori del Casmef hanno redatto un complesso documento, dimostrando che alzare le tasse sui tabacchi lavorati non porta grandi benefici alle casse dello Stato e rischia di favorire il contrabbando. È vero? Lo studio – dice il relatore – è stato finanziato da due multinazionali: la Bat e la Jti, ascoltate nei giorni precedenti.
Qui però dovremmo aprire un altro capitolo, per capire il rapporto tra multinazionali, parlamentari ed università private.

Fonte

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