L’inferno della classe operaia

infernoclasseoperaia1.1Classe operaia – “Il lavoro è dignità”…da quanto tempo sentiamo ripeterci questa bugia?
Sicuramente dai tempi in cui sinistra politica e sindacati hanno abbracciato le “idee” del neoliberismo, della “competizione”, del “profitto”, tutte parole slegate, se non antitetiche a “bene comune”, “interessi dei popoli”, “salute”, “diritti”, “libertà” e la stessa “dignità”.
Serviva al potere, e ai suoi megafoni ben pagati, mi riferisco chiaramente ai sindacati confederali e ai partiti “riformisti” o “progressisti” della sinistra italica, aggettivare il lavoro con la parola dignità, escludendone il significato reale, facendone uno slogan buono per ogni tempo, soprattutto in periodi di povertà diffusa come quelli attuali, riducendo così il diritto primario sancito dalla nostra Costituzione a mera elemosina da dover accettare a qualsiasi prezzo e qualsiasi costo, anche in vite umane.
I risultati, dopo decenni di lavaggio del cervello e di mortificazione e mistificazione delle conquiste operaie, ottenute da quelle piazze piene di cuore e dignità, di futuro e di presente, di amore e di coscienza, sono la precarietà, la disoccupazione più alta d’Europa, gli infortuni e gli omicidi sul lavoro, i tumori e le malattie che uccidono intere generazioni…e un’ idea da servi, da schiavi, da mendicanti del posto di lavoro.
Le parole pronunciate nella trasmissione di Santoro dagli operai di Piombino, uno forse iscritto al PD, sono il quadro desolante ed agghiacciante di una “classe” senz’anima, senza futuro, anzi addirittura complice della cancellazione di quello dei loro figli, succube di una cultura dell’umiliazione e della privazione, prona ai dettati e ai “regali” dei potenti, alle loro elemosine, disposta ad accettare un lavoro senza qualità e senza dignità, senza soldi e senza diritti…perché il lavoro, sic et simpliciter, sarebbe dignità, cioè l’auto per poter andare a lavorare, la scuola fatiscente del figlio, la sanità incapace per la propria vecchiaia, la pensione da fame, una vita da disoccupati o da precari per gli “eredi”.
Quella “coscienza” che dava la forza, a chi lavorava in condizioni sub-umane negli altoforni, nelle miniere, in fabbriche dove la catena di montaggio uccideva vite e spirito, di scendere in strada, di riempire le città, di rivendicare, di pretendere un salario adeguato alla produzione e alla “fatica”, meno ore di lavoro, più occupazione per tutti, una vita migliore e degna di essere vissuta, sembra scomparsa nelle nebbie di quella concezione “progressista e riformista” di una economia padrona dell’ambiente e della vita, strumento di arricchimento sul sangue altrui, di impoverimento e avvelenamento di intere zone del nostro paese, di un vero e proprio sequestro della nostra terra e delle nostre speranze.
Resistono e lottano, ignorati dalle tv e dai quotidiani del potere, quei presidi di dignità e di coscienza che non cedono al ricatto, che sanno ricordare e sanno che la parola “futuro” va costruita, difesa, alimentata da quel rispetto che si deve avere per se stessi e per chi ci seguirà, quel rispetto che non può arretrare né per 80 euro in più, né per l’elemosina di chi il futuro vuole comprarlo solo per se.
Gli operai della Fiat di Pomigliano, i “resistenti” della ex-Alfa di Arese, i cittadini e lavoratori liberi e pensanti di Taranto, i licenziati Telcom, i licenziati dalla Cgil, i facchini della Granarolo e le altre mille e più realtà che non abbassano la testa, sono l’unica uscita da quell’inferno in cui il consociativismo, la concertazione il progressismo ed il riformismo ci hanno cacciato. A queste coscienze va data voce.

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